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Pio Caroni

Discurso de investidura como Doctor Honoris Causa del Profesir Pio Caroni

STORIE DI CODICI. UN ITINERARIO

Fuori il mandorlo stormiva e ogni tanto cigolava di vecchiaia. Dal paese, dal suo selciato, veniva lo zoccolio di un mulo. Qualcuno partiva già per la sua campagna. Ce n’erano di distanti tre o quattr’ore. Ricordò che dicevano: “Se arrivi nel tuo non è mai lontano”. F. BIAMONTI, Attesa sul mare, Torino 1994, p.56.

Excelentísimo y Magnífico Rector. Excmas e Ilmas Autoridades. Miembros del claustro universitario, familiares, amigos, señoras y señores:

1. Ho in patria amici, che sarebbero stupiti, e non poco, se solo sapessero dove sono e cosa faccio. Memori del mio profondo e mai nascosto scetticismo rimpetto ai rituali accademici oramai privi di linfa vitale, questi increduli amici vorrebbero conoscere sia le ragioni di questa mia odierna presenza che di questo mio apparente ripensamento. Le devo a loro, ma le devo soprattutto a voi, che guardate a questo canuto storico del diritto svizzero, che vi parla per di più in italiano, con lo stupore con il quale noi tutti, per prudenza o per rispetto, affrontiamo spesso il nuovo ed il diverso. Comincerò allora ricordando che sono entrato nella vita di questa Università, che oggi mi accoglie generosamente fra i suoi eletti, del tutto irritualmente. Invitato nella primavera del 2006, con mia grande sorpresa, a partecipare ad un colloquio sul destino tutt’altro che scontato dell’insegnamento della storia a futuri giuristi, venni e parlai come potevo, voglio dire non come chi difenda una scelta (che rinvia ad un mercato), ma una vocazione (che rinvia alla vita). Lo feci ovviamente scegliendo accuratamente le parole, calibrando le frasi – perché l’argomento è notoriamente scabroso – ma anche con passione, che per sua natura è 2 difficile da moderare. Qualcuno qui deve essersi accorto di tutto questo se, due anni piú tardi, mi venne – ancor più inatteso – l’invito a tenere qualche ora di insegnamento a studenti già saldamente avviati verso la conclusione degli studi. Lo accolsi con gioia incredula, mi preparai puntigliosamente e mi disposi a partire. Ma per un discutibile scherzo del destino quel giorno, invece di approdare all’aeroporto, come avevo previsto, finii all’ospedale. Da dove telefonai alla mia carissima collega Adela Mora Cañada – che ricordo oggi e qui con commozione pari alla gratitudine. Mi aveva invitato lei, nella sua qualità di Decano, le raccontai la mia disavventura, me ne scusai e soprattutto la implorai di affidare l’incarico a un altro collega, possibilmente più robusto. Adela non si lasciò irretire dalle mie preghiere, tagliò corto e disse risoluta: “Professore, vogliamo lei e solo lei!”. Ecco, così sono entrato nella vita di questa facoltà, ab initio mi sono sentito membro straniero ma non estraneo di questa grande famiglia, destinatario di cortesie e di continue attenzioni, interlocutore privilegiato, collega ascoltato. L’atto accademico odierno, che generosamente mi accoglie fra i doctores di questa prestigiosa istituzione, non lo vivo perciò come un rito pallido e stanco. Suggella piuttosto e valorizza a tal modo una storia, quella che ho tentato di riassumere. Non è una mossa strategica, men che meno un doveroso riconoscimento, ma un atto gratuito nel segno di una fraternità, carissime colleghe e carissimi colleghi, che vi onora e mi commuove. Una cosa è comunque certa: che dall’inizio qui ho respirato aria di casa. Non solo perché i rapporti personali erano cordiali e amichevoli, ma anche perché a tema generale del mio insegnamento, svoltosi poi regolarmente dal 2009 al 2012, fu dall’inizio promosso l’universo codificatorio, con la ricchissima storia che lo avvolge; vale a dire un tema, che da mezzo secolo mi accompagna fedele come un’ombra, al punto che, quando tento di liberarmene per esplorare altri territorii, inevitabilmente mi riagguanta, in una parola incombe. Il che ha dell’inspiegabile, se si pensa che in questo universo sono entrato senza volerlo, forse anche per sbaglio. Qualcosa d’altro aveva infatti inizialmente catturato la mia attenzione, la vita e soprattutto l’opera di un grande giurista tedesco, discendente di una famiglia di ugonotti, vissuto dal 1779 al 1861. Friedrich Carl von Savigny, questo il suo nome, viene generalmente considerato il massimo giurista europeo 3 dell’Ottocento. Io ne leggevo le opere, moltissime e scritte con classica e inimitabile eleganza, con quella voracità irruente ed insaziabile, come la si prova solo a trent’anni. Tentavo di conquistarlo, carpirne i segreti, di appropriarmelo, un po’ come facciamo con tutte quelle cose, quelle musiche, quei quadri, quelle poesie che ci accompagnano poi fedelmente nella vita, condividendo talora la nostra gioia, altre volte consolandoci. E nello stesso tempo lo interrogavo, tentavo di indovinarne gli umori, di raccoglierne le sollecitazioni. Di Savigny, veneratissimo ed instancabile maestro di giovani, che da tutto il mondo accorrevano a Berlino, tutti attratti dal suo irresistibile, singolarissimo carisma, di lui i giuristi odierni ricordano di regola, se va bene, il nome. E forse anche, ad aver fortuna, qualcosa d’altro: che nel 1814 creò scompiglio nel mondo dei giuristi e dei politici pubblicando un pamphlet, nel quale criticava con insolita radicalità la strategia codificatoria. Per capire la valenza storica di questo affondo vanno tenute presenti tre coordinate. La prima ricorda che la codificazione del diritto era una procedura escogitata e proposta a partire dal secolo XVIII per mettere fine a quell’estrema frammentazione delle fonti giuridiche, che rispecchiava, a sua volta, la disgregazione territoriale e sociale del vecchio mondo. La seconda mostra che tale strategia fu tosto vincente: nel 1794 in Prussia, nel 1804 in Francia, nel 1811 in Austria furono infatti sanzionati, rispettivamente varati, i primi codici civili, ossia raccolte sistematiche e tendenzialmente esclusive, perciò unificanti, di regole giusprivatistiche. L’ultima finalmente rivela che poche settimane prima della pubblicazione del nostro pamphlet, un insigne collega di Savigny, ossia Anton Friedrich Justus Thibaut (1772-1840), che insegnava diritto romano (ossia diritto civile vigente) ad Heidelberg, aveva proposto di unificare il diritto civile nelle terre tedesche elaborando un codice loro comune. Nel suo libello Savigny rispondeva proprio a lui, e ciò facendo osava opporsi al vento che si levava gagliardo sul continente, nel tentativo di bloccare quella che lui riteneva una tragica deriva. L’aveva fatto con signorilità, badando a non alzare la voce, ma anche a non equivocare. Infatti non si accontentò di analizzare i tre codici appena ricordati e di denunciarne impietosamente 4 errori e limiti. Andò decisamente oltre, la sua fu una vera e propria stroncatura. Folgorava infatti la strategia codificatrice in quanto tale, perciò senza tener conto dei possibili sbocchi, quindi anche senza valutare il contenuto concreto dei singoli codici. In poche parole: nessun codice l’avrebbe mai convinto, nessuno gli avrebbe mai carpito un’adesione. L’eccezionale implacabilità di questa condanna ha da sempre stimolato sia la fantasia dei lettori, che la curiosità dei critici. L’hanno spesso ritenuta prevenuta, unilaterale, eccessiva quando non abile mossa reazionaria, funzionale alla difesa ad oltranza dell’ordine cetuale, di singoli privilegi feudali, di un proprio progetto scientifico e d’altro ancora. Da parte mia ho sempre creduto – e lo credo tuttora – che il rifiuto di Savigny derivasse dalla sua teoria della conoscenza, caratterizzata dal primato della storia. Per essa il presente era legato così indissolubilmente al passato, da potere venir letto solo risalendo fino alla radice. Come per secoli avevano praticato proprio i giuristi, che in questa ininterrotta spola fra le fonti del diritto romano classico ed il loro presente tentavano di appurare la consistenza del diritto vigente. Il codice allignava invece in una gnoseologia non solo decisamente ‘altra’, ma anche più spiccia. Figlio di uno statalismo sfacciato, entrando in vigore recideva ogni legame con il passato. Ora bastava consultarlo, per conoscere il diritto vigente. Detto altrimenti: interrompeva quel flusso magmatico fra passato e presente, che per Savigny era letteralmente vitale. Come non capirne allora la radicalità della reazione? Tutto questo spiega molte cose, sia importanti che marginali, ad esempio anche perché io sia entrato nel mondo di Savigny per studiarne le opere e me ne sia poi furtivamente uscito con la codificazione sotto braccio. Il che, detto fra noi e in tutta modestia, non mi pare una cattiva scelta. Nemmeno a 50 anni di distanza. Se è vero che Savigny, già perché se ne sentì personalmente insidiato, la analizzò più algidamente di altri e la descrisse meno superficialmente dei suoi numerosi apostoli. Non desta perciò nessuna meraviglia il fatto, che la sua definizione abbia attraversato indenne tutto l’Ottocento. Ecco, proprio per tutti questi motivi non vedo nessuna contraddizione fra il mio iniziale interesse per Savigny e le numerose ricerche svolte poi sulla storia delle codificazioni. Anzi, vedo nel primo l’ideale premessa delle seconde. 5 Comunque sia: da allora queste ricerche sono diventate un esercizio quotidiano, la mia palestra personale, se si vuole, oppure – come riassumevano maliziosamente i miei studenti – “l’osso di seppia, al quale ricorre quotidianamente il nostro professore per affilare il becco”. Il che non mi ha impedito di occuparmi di molte altre cose e di scriverne ampiamente: di storia del diritto privato e di beni comuni, di diritti reali e di registro fondiario, di teoria dell’interpretazione e di neo-pandettismo, interpellando via via schiere molto diverse di lettori. Ma è altresì vero, che spesso tutto ciò avveniva in un contesto tanto o poco rigato da qualche spunto codificatorio. Stando così le cose, fioccavano con il passar degli anni domande più buffe che realmente imbarazzanti. Ad esempio quella del collega che desiderava sapere se non mi annoiasse la costanza del tema; o se non avessi oramai bonificata tutta la palude codificatoria. Fino a quella semiseria di un collaboratore, desideroso di sapere se tutte queste cose non le avessi magari inventate io per rianimare la discussione, mimando gli avvocati d’antan, quel loro studiatissimo modo di soffiare sulle braci per riattizzare il fuoco di una lite, che stava pericolosamente spegnendosi. Tutte domande, queste, che io – sorridendone – evadevo alludendo alla vastità del tema, all’urgenza di correggere talune opinioni tradizionali o di approfondirne altre, come anche al desiderio – generico, ma non per questo solo sporadico – di sempre guardare oltre. Avrei potuto scoraggiare l’amichevole petulanza di tutti questi interlocutori tagliando corto ed asserendo: l’universo codificatorio mi ricorda quei vecchi atlanti, nei quali le zone inesplorate di un paese venivano segnalate dalla frase: hic sunt leones. Non intendeva intimidire il lettore, ma stimolarne la curiosità, indurlo ad avventurarsi (almeno con la fantasia, per il momento) in territori, che il cartografo non aveva mai esplorato o dalle quali fu cacciato in malo modo. Così anche noi, tracciando la storia della codificazione, non possiamo accontentarci di frequentare e descrivere le agglomerazioni abitate; prima o poi è bene uscirne, perlustrare anche le periferie, setacciare le lande incolte ed affrontare, se necessario, anche i leoni. Fuor di metafora: non ci blocchi, nemmeno ragionando su questo tema specifico, il timore di allontanarci da 6 casa, ossia di rimettere in discussione verità troppo frettolosamente canonizzate! Tutte queste cose, peraltro evidenti, le posso ribadire a chi mi interroga, e così chiudere il discorso. Ma a voi, che mi ascoltate pazientemente, devo offrire qualcosa di più, devo mostrare che è anche concretamente possibile progredire nella conoscenza di questo importante capitolo della storia giuridica moderna. E lo faccio distinguendo i tre momenti, che hanno finora scandito le mie ricerche, e spesso non solo le mie. 2. Una prima storia descrive l’itinerario dell’ideale codificatorio, dalle intuizioni teoriche iniziali alla sanzione regia o parlamentare di progetti concreti. È per definizione una storia programmatica e vincente, che di regola oscura implicitamente le ragioni dei vinti, ossia di quelli che si opposero all’impresa o chiesero invano di concepirla diversamente. Studia dapprima le radici del movimento e le individua ad esempio in talune intuizioni dell’umanesimo giuridico, nel furore ordinante del giusnaturalismo, come anche nel rigido monismo legislativo professato dall’illuminismo giuridico. Si sofferma poi sui numerosi tentativi del XVIII secolo, rimasti generalmente tali poiché il contesto sociale e politico ancora non reclamava quell’ unificazione delle regole giuridiche, che costituiva il traguardo ultimo di ogni strategia codificatrice. Non va peraltro taciuto che molti di questi tentativi rinviano emblematicamente alla politica dei sovrani illuminati, massime al loro costante desiderio di riformare le regole penali per rimuovere quell’occasionale sproporzione fra delitto e pena, che infliggeva punizioni immeritate, quando non favoriva l’inefficienza della repressione. Come non ricordare a questo proposito la sollecitudine, con la quale Federico il Grande di Prussia, Giuseppe II in Austria, come anche l’augusto sovrano Carlos III, nel cui ricordo è stata fondata questa Università, aderirono a inviti e suppliche, che loro venivano dal corpo della magistratura e dalle Università, propiziarono l’allestimento di progetti e altre volte ancora ne sancirono gli esiti? 7 Ma lo spezzone più importante – e anche più conosciuto – di questa prima storia è certamente l’ultimo, già perché determina l’inizio di una nuova epoca nella storia giuridica europea, quella dei codici davvero realizzati. Che ora arrivarono a ondate, una dopo l’altra. Dapprima, ancora a cavallo fra Settecento e Ottocento, i tre codici civili or ora citati, quelli prussiano, francese e austriaco. Poi l’ondata ottocentesca, con una lunga serie di codici di stati europei e iberoamericani. Per finire con una terza ondata, quella dei grandi codici nazionali: quello spagnolo (1889), quello tedesco (1900) e quello svizzero (1912). E così via, si è tentati di dire, poiché a dispetto di talune previsioni poco rassicuranti, che avevano presentito un tempo della decodificazione, la strategia codificatoria tuttora ‘tiene’, almeno in apparenza. Prova ne siano codici recenti e recentissimi (l’ultimo in ordine di tempo è quello ungherese del 2014), che tutti ribadiscono la costante vitalità di questa strategia. Questa prima storia, che si arricchisce dunque sempre di nuovi capitoli, poiché stati e nazioni non si stancano mai di aggiornare i loro codici, come anche di sostituire vecchi con nuovi codici, è generalmente lineare e scontata. Descrive generalmente il dipanarsi di un itinerario a partire dall’elaborazione di un progetto, dalla sua spesso controversa formulazione e dall’esame parlamentare fino allo sbocco finale, ossia alla sanzione regia o all’approvazione parlamentare, grazie alle quali il codice divenne diritto positivo, ossia vincolante. Per il giudice, come anche per i destinatari. Ma è parimenti appagante, perché sempre anche vincente: mostra infatti come lentamente emerse e vieppiù si insediò un vero e proprio monumento giuridico. Se fu a lungo chiamata “esterna”, questa prima storia, non a caso: privilegiava infatti l’aspetto giuridico e autoreferenziale del racconto, preferiva la documentazione ufficiale (anche perché facile da reperire), vedeva nell’entrata in vigore del codice la data del grande cambiamento o se si vuole la conclusione trionfante. Per questo motivo nessuno si meraviglia che gli storici del diritto l’abbiano a lungo gestita esclusivamente, rispettivamente difesa, quasi fosse una loro riserva di caccia. Questa è dunque la storia della codificazione, che campeggiò a lungo nei nostri manuali: tutta giuridica, tecnica, scontata, secca. Ed è anche quella, nella quale cinquant’anni fa, all’inizio delle mie esplorazioni, mi imbattei. 8 Ovviamente dapprima la condivisi. Ma con il passare degli anni crebbe il mio disagio. Non mi spiaceva il racconto in sé, che ritenevo e ritengo tuttora plausibile se ridotto all’osso, ossia se circoscritto alla pura cronologia. Mi disturbava invece il suo tentativo di catalizzare impropriamente l’attenzione del lettore, in realtà di usurparla, presentando il codice appena varato quale unico e indiscusso protagonista della storia, per di più proprio nel momento, in cui trasmetteva alla società un testo oramai blindato, perciò immodificabile e definitivo. Al quale la società doveva prontamente allinearsi, cioè ubbidire. 3. Più tardi dal disagio nacque la certezza, che accanto a questa prima storia ne fosse pensabile un’altra. Toccava proprio al codice suggellare la prima e inaugurarne una seconda, in tutto e per tutto ‘altra’. Perché recuperava una distinzione, che il diritto consuetudinario non aveva mai dimenticato, quella fra una legge formalmente in vigore e una legge non solo ‘vigente’, ma anche realmente condivisa, quindi concretamente applicata. A prenderla sul serio, questa distinzione, permetteva di capire cose importanti: ad esempio che tutto quanto avviene nel cosiddetto dopo-codice, ossia nel periodo che inizia con l’entrata in vigore del codice, non è né chiaramente prevedibile, né scontato. Non è perciò paragonabile all’attività di un esecutore testamentario, ragione per cui sarebbe impensabile dedurlo dal testo, come invece facevano i giuristi ricordati poc’anzi. Basterebbe riflettere sulla struttura dei codici borghesi, per convincersene: per loro natura astratti e programmatici, spesso persino (solo) visionari, circoscrivono aree e liberano spazii, che toccherà ai destinatari sfruttare come suggerirà (o permetterà) la loro autonomia privata. Talvolta confermando le previsioni del legislatore (che non è mai uno sprovveduto, ma nemmeno un indifferente), altre volte non tenendone conto. Già per questo motivo deve ammettersi che il significato concreto delle norme del codice non viene anticipato dalle parole, ma resta a lungo un’incognita, risulta finalmente solo dalla loro attivazione. Occuparsene, descriverla, parlarci dell’implementazione del 9 codice, mostrarci come sia entrato in quella società, che l’aveva inizialmente rivendicato, e cosa abbia poi davvero provocato: questo è il compito della seconda storia, di quella che in tedesco con un’espressione molto precisa ma purtroppo intraducibile si chiama Wirkungsgeschichte. Chi poi non si accontentasse di prendere nota della contemporanea presenza di queste due storie, ma desiderasse pure ragionare sul loro vicendevole rapporto, noterebbe tosto almeno due differenze: -- tanto la prima storia ci appare conclusa al più tardi con la sanzione regia (o con l’approvazione parlamentare) del progetto, tanto risulta aperta la seconda. Se indaga su un codice tuttora in vigore sfida il tempo, in realtà lo sorpassa, arriva fino a me che proprio in questo momento ci sto pensando, mi investe, mi coinvolge, mi interpella personalmente, si attende anche da me risposte concrete. Mentre la prima storia può lasciarmi indifferente e freddo, questa seconda volente o nolente mi arruola; -- tanto la prima risulta accessibile e maneggevole, tanto difficilmente catturabile e comunque sfuggevole rimane la seconda. La prima annega nella ricchezza della documentazione, non solo di quella ufficiale, la seconda stenta ad acquisire i dati e le risposte, con le quali imbastire i suoi ragionamenti. Perché se è agevole documentare l’iter di un progetto, resta tecnicamente difficile appurare sia il reale significato che la effettiva applicazione di una regola giuridica. Il tanto vituperato Medio Evo aveva escogitato procedure sofisticatissime per conoscere lo stato di salute del diritto consuetudinario. Ordinavano una inquisitio per turbam, la presenza di coutumiers, notai e prud’hommes nel collegio giudicante, l’interrogazione di statutarii da parte del tribunale e altri accorgimenti ancora, tutte procedure che i codici ovviamente non riattivarono. Già perché ora chiarivano loro, e lo facevano in modo esclusivo e vincolante, quale fosse il diritto vigente. Ne precisarono pure, con rigore cronometrico, la data dell’entrata in vigore. Ma di un vigore, come sappiamo bene, virtuale ed astratto, ossia di una teorica applicabilità, che non va confusa con una fattiva, concreta applicazione. Come viene sì attestata dalle sentenze dei tribunali, dalle allegazioni degli avvocati, dalle perizie dei professori, dalle abitudini contrattuali nate grazie all’autonomia negoziale, ma sempre e solo in casi singoli, se non proprio eccezionali. Ragione per cui mi vedo costretto 16 riscrivere la tradizionale storia delle codificazioni. Può senz’altro venir conservata, a patto però di ridimensionarla. Ci incoraggia piuttosto a non più accontentarci di essa, a brucare finalmente anche l’erba di un altro pascolo, quello della reale, effettiva e documentabile vita del codice, del quale a lungo non ci eravamo nemmeno accorti. In merito, l’ho già detto, s’è fatto relativamente poco finora. E quel poco è rimasto quasi nascosto, forse per la paura di screditare voci finora prevalenti o di urtare antiche suscettibilità. Perciò urge un cambiamento di rotta, urgono nuove ricerche, che oggi vorrei esplicitamente propiziare. Non ci sveleranno, nemmeno loro, il passato, quello vero, oggettivo, indiscutibile, che resterà sempre una cittadella inavvicinabile e incatturabile, rispettivamente un eterno miraggio. Ma in compenso ci diranno qualcosa di noi, di quello che vediamo nel passato e di come lo facciamo rifluire nel presente, anche nel nostro lavoro quotidiano di giuristi, questa restando finalmente l’ambizione primigenia della nostra disciplina storica. Ecco, mi piace pensare che tributandomi questo onore, accogliendomi con grande generosità fra i suoi eletti, la Facoltà di scienze sociali e giuridiche abbia anzitutto inteso ribadire la centralità di questa disciplina, l’essenzialità di uno sguardo, di questo sguardo dietro alle nostre spalle, così urgente per moderare la nostra occasionale superbia e per combattere l’atrofia che ce ne verrebbe. Mi colma di letizia rilevarlo e poter concludere così, ossia serenamente. Grazie.